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Truman Capote: "Mai avuto talento per una vita normale"

  • Andato in onda:16/02/2018
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      Tutti conosciamo Truman Capote per Colazione da Tiffany: magari non per aver letto il  suo romanzo breve del ’58, ma per l’immagine divenuta icona di una Audrey Hepburn, indimenticabile Holly sofisticata e imprevedibile, nel film di Blake Edwards. 
      Intelligenza, stravaganza e amore per la scrittura caratterizzarono Capote fin da piccolo. “Iniziai a scrivere quando avevo circa otto anni -dichiarò lui stesso- scrivere è sempre stata la mia ossessione, era semplicemente una cosa che dovevo fare, e non capisco neanch’io perché dovesse essere così. Era come se fossi un’ ostrica e qualcuno mi avesse infilato a forza un granello di sabbia nella conchiglia”.

      Ma qui lo vogliamo ricordare attraverso un’ altra sua opera,  A sangue freddo (1966), secondo l’autore capostipite del genere “romanzo-documento”, che parte da un atroce fatto di cronaca avvenuto nel Kansas,  di cui decise di occuparsi per raccontarlo inizialmente a puntate  sul New Yorker  e che come lui stesso disse, gli cambiò la vita. 
      Sei anni trascorsi tra interviste, ricerche, ricostruzioni e ripetute visite in carcere ai due assassini che avevano ucciso, senza alcuna apparente ragione, padre, madre e due dei quattro figli di una famiglia di agricoltori nella notte tra il 14 e il 15 novembre del 1959. 
      Sei anni fatti soprattutto di incontri con Perry Smith, quello dei due responsabili del massacro a cui Capote si sentiva più vicino, soprattutto perché come lui era stato abbandonato da piccolo.
       
       

      Truman Capote, in compagnia dell'amica Harper Lee, autografa copie di "A sangue freddo" (1966)

       

      Sei anni in cui ha accanto la sua amica da sempre, la scrittrice Harper Lee, autrice del celebre Il buio oltre la siepe.  Fin da bambini, vicini di casa a Monroeville, piccolo centro agricolo dell’Alabama  che per molti avrebbe dovuto essere definito con tanto di cartello stradale “paese di Harper Lee e Truman Capote”.
      Sei anni in cui deve aspettare la fine del processo che portò ad una inevitabile condanna a morte per i due responsabili del quadruplice omicidio. La loro impiccagione avvenne il 15 aprile 1965: Capote era lì. 

      Tutto questo è raccontato minuziosamente  e con una scrittura che mescola con maestria realtà e fantasia, ma che ritrae con grande efficacia non solo la vicenda raccontata, ma colui che la racconta.
      E tutto questo è sorprendentemente restituito per regia, interpretazione magistrale e atmosfere ricostruite dall’omonimo film del 2005 di Bennet Miller e che valse a Philip Seymour Hoffman l’ Oscar come miglio attore per l’ interpretazione di Truman Capote. 
      Nell’essere Truman, Philip Seymour Hoffman diventa ed è lui: nell’aspetto, nei tic, nelle movenze, nella voce chioccia, a volte irritante e tutta di testa. Voce che Roberto Chevalier nel doppiaggio italiano restituisce perfettamente come emanasse dallo schermo. Voce che può sembrare macchiettistica solo a chi non lo ha conosciuto: ma lui era proprio così, come lo stesso Chevalier racconta a Tatti Sanguineti e Paolo Mereghetti nella trasmissione radiofonica Hollywood Party del 16 febbraio 2006, nel ripercorrere il minuzioso lavoro compiuto per arrivare ad una voce che di Capote restituisse il carattere e tutte le sue sfaccettature.      


      Elisabetta De Toma

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